Riflessioni sul conflitto

La gestione dei conflitti

Avv. Giuseppe Spanò – Parma

Per approfondimenti avvocatogiuseppespano.it

Cosa è il conflitto

È essenziale, innanzitutto, soffermarci su cosa è il conflitto, termine che deriva dal latino “conflictus” e significa urto, scontro, combattimento. Si evidenzia da subito una stretta connessione tra i conflitti macrosociali e microsociali. Anche se le guerre sono scontri tra popoli e stati, esse traggono alimento da mille piccole guerre, manifeste o sotterranee, che le persone, i gruppi e le classi sociali combattono quasi ogni giorno: nel traffico, sul lavoro, in famiglia, nello sport, in politica, perfino dentro se stessi. Varie sono le motivazioni di questa diffusa conflittualità: dalla difesa di interessi di parte alla competizione per affermarsi, dal desiderio di potere al bisogno di difendersi da prevaricazioni messe in atto da altri. Il comportamento delle persone è finalizzato al soddisfacimento dei loro interessi egoistici in un mondo in cui l’ordine sociale si basa sulla coercizione organizzata e sulla persuasione ideologica. Come poi ha mostrato Weber, il conflitto è il punto cardine non solo nel rapporto tra le classi ma anche all’interno di ciascuna classe e nelle organizzazioni (fazioni). Il focus delle teorie del conflitto sociale si basa sulla disparità nella ripartizione delle risorse, materiali e culturali, e la connessa disparità di potere: alcuni individui, gruppi, classi hanno più potere e risorse di altri e ciò ingenera conflitto.

Ciò che avviene a livello macrosociale si ritrova, come detto, anche nel microsociale: se in una famiglia dove vi sono più figli viene data maggiore considerazione e affetto ad uno di essi, si creeranno inevitabilmente dinamiche conflittuali. Lo stesso accade nei piccoli gruppi, per esempio in una squadra sportiva: quando la disparità tra i giocatori titolari e le riserve è troppo marcata e queste ultime si sentono poco utilizzate e considerate, agiscono come fomentatori occulti, sobillando la squadra.

Il conflitto è per sua natura relazionale: senza relazione non c’è conflitto.

Il problema non è tanto la sua esistenza, quanto le modalità con cui lo si affronta o lo si evita. Queste modalità provengono dalle nostre convinzioni, le quali poggiano le loro basi sull’educazione che abbiamo ricevuto e, conseguentemente, sul significato che diamo al conflitto stesso.

Nel momento in cui ci troviamo a vivere un conflitto, si attivano i condizionamenti ricevuti nella nostra infanzia, i quali determinano i motivi per cui ognuno di noi lo vive diversamente (modelli culturali limitanti).

Altri condizionamenti dell’infanzia, come il senso di abbandono, l’esclusione, paure di varia natura, gelosie, scarso riconoscimento, mancanza di comunicazione, quando viene toccato qualcosa che appartiene a una storia dolorosa, possono poi riflettersi da adulti in situazioni di conflitto, attivando improvvisamente rabbie esplosive.

La gran parte delle persone, infatti, nei confronti del conflitto ha un atteggiamento che non permette alternativa possibile: o si aggredisce o si subisce, o si fugge o si attacca, o si evita o si reagisce, o si scappa o si subisce.

Ciò che immediatamente emerge è l’aspetto disturbante che il conflitto inevitabilmente porta con sé, il senso del disagio, l’incapacità di rapportarsi senza farsi trascinare dalla danza delle emozioni ad esso connesse: rabbia, frustrazione, dolore, sofferenza.

Il conflitto è doloroso, portatore di disagio, il quale alimenta i problemi che a loro volta alimentano il disagio.

Per affrontare il conflitto occorre quindi affrontare il disagio, e in ciò sta la principale difficoltà; l’altra sta nel riconoscere le cornici in base alle quali abbiamo strutturato il nostro modo di rapportarci al conflitto, l’educazione e i modelli che abbiamo ricevuto.

Le altre modalità che emergono e che ripetutamente si riscontrano sono: attaccarsi alle proprie posizioni, trincerandosi dietro la convinzione di avere ragione, e quindi giudicare l’altro come colui che ha torto; evitare il conflitto, fingendo che vada tutto bene e che sia meglio mantenere lo status quo, anche quando questo è portatore di disagio. In questi casi il conflitto risulta distruttivo. È vero che i conflitti sono parte inevitabile delle relazioni umane, anche nella migliore delle famiglie o nel miglior posto di lavoro affiorano di frequente, tuttavia, quando succedono, devono servire a rafforzare e ad energizzare le relazioni invece che a deprimerle. In un conflitto salutare le nostre idee vengono messe alla prova in modo che possano essere individuati nuovi modi di essere e di agire. Un conflitto sano ci permette di renderci conto di quali ripercussioni il nostro comportamento sta avendo sugli altri in modo che tutti possiamo collaborare meglio. In questi casi il conflitto diventa costruttivo.

Il conflitto dentro di noi

È evidente che per poter gestire un conflitto con altri bisogna preliminarmente gestire i propri conflitti interni.

Nessuno di noi è un’isola: non possiamo crescere e prosperare come individui, se non ci rendiamo conto che ciascuno di noi è il nodo di un’immensa rete di rapporti e che siamo forti e sani tanto quanto lo sono le relazioni che intratteniamo con gli altri e con il pianeta.

Negarsi è l’essenza della nevrosi. La nevrosi viene presentata come una scissione tra due polarità, una delle quali viene tenuta nell’inconsapevolezza. La nevrosi è, non tanto un conflitto attivo di una polarità contro un’altra, ma piuttosto la pacificazione prematura del conflitto, ovvero il tentativo riuscito di evitarlo. L’unico cambiamento che va verso il benessere è imparare ad essere esattamente ciò che siamo accogliendo nel nostro sentire la tensione dei conflitti interni in cui maggiore è il contrasto, più grande è il potenziale (F. Perls).

Sappiamo che possiamo trasformare le nostre relazioni e, imparando ad auto-osservarci, possiamo cominciare a mettere in alto nuove e più funzionali azioni consapevoli.

Ascoltare le differenti voci o istanze che emergono nel conflitto, significa anche imparare a comprendere quali bisogni si nascondono dietro. Ovvero, quando le voci affiorano possiamo vedere bisogni e paure affacciarsi alla mente e cercare di influire sulle nostre decisioni.

Per esempio, dietro l’attaccare può nascondersi la paura di soccombere, ovvero: attacco per non essere sopraffatto. Dietro il competere può nascondersi il bisogno di affermarsi, ovvero: se non competo non potrò mettere in luce le mie capacità. Dietro lo scappare può nascondersi la paura di essere ferito: scappo per non mostrare le mie parti vulnerabili.

Tutto ciò mette il protagonista del conflitto in una situazione in cui non riesce a coordinare i molteplici aspetti di sé. Bisogni interni ed eventi esterni ci fanno muovere senza capire bene in quale direzione ci stiamo muovendo. Ecco perché è importante ascoltare le voci, o istanze interne, capirne la provenienza e la motivazione, cioè quale bisogno, istinto o paura sta parlando e perché. Poi bisogna scoprire se un bisogno è reale o fittizio, se è primario o secondario, attribuendogli una corretta valenza. Per esempio, nei conflitti, questo significa distinguere tra bisogni reali e paure.

Il punto, allora, è individuare tramite l’ascolto di noi stessi quale voce ci stia muovendo, anziché pensare che gli altri rappresentino il problema perché non soddisfano le nostre aspettative. Non sempre è facile e non sempre ci si riesce, ma l’ascolto delle nostre voci, e dei bisogni ad esse sottese, rappresenta un ottimo punto di partenza.

I cattivi rapporti con gli altri sono anche il riflesso di cattivi rapporti con noi stessi.

Ogni volta che facciamo una scelta nella vita: in famiglia, a scuola, con gli amici, sul lavoro – reprimiamo una parte di noi e dei nostri bisogni, e così facendo la releghiamo nell’inconscio. Le sub-personalità che rinneghiamo e releghiamo nell’inconscio non ci stanno a farsi tagliare fuori e faranno di tutto per ottenere attenzione e soddisfazione: sobilleranno, saboteranno, semineranno zizzania, insomma fomenteranno il conflitto dentro di noi e, per riflesso, anche fuori di noi. Proveremo antipatia e repulsione per qualcuno perché in realtà ci ricorderà – magari in eccesso – parti di noi che abbiamo chiuso nella “prigione” dell’inconscio; combatteremo con nemici esterni ma in realtà saremo in guerra con noi stessi.

I lati ombra non sono negativi in assoluto ma solo fino a quando vengono ritenuti tali e confinati nell’inconscio; al contrario, se si ha il coraggio di prenderne coscienza e di dialogare con essi, è possibile trasformarli da elementi negativi in risorse altamente positive. A tal fine è necessario impegnarsi in un cammino di autoconoscenza, e uno dei percorsi più efficaci per prendere coscienza di tali lati è proprio la relazione. Uno degli aspetti più belli che ci offrono le relazioni con altre persone è appunto la possibilità di recuperare i nostri sé negati: attraverso un continuo e consapevole confronto con l’altro compiamo un viaggio nelle profondità del nostro essere. Questo non solo si traduce in un vissuto più soddisfacente nella relazione ma anche in una accresciuta conoscenza di noi stessi e in un più alto livello di realizzazione personale.

Se imparassimo ad accettare la globalità di ciò che siamo e non solo alcune parti, sarebbe assai più facile accettare i diversi da noi; se sapessimo conciliare creativamente i nostri diversi bisogni invece di accettarne solo metà e rinnegare l’altra metà, saremmo anche più in grado di negoziare con equità con altri individui, classi sociali, popoli o stati, invece di considerare le nostre esigenze più importanti delle loro e liquidarli con poche briciole e molta arroganza.

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